In Patagonia

Solvitur ambulando, è questo il motto scelto da Bruce Chatwin come stella polare, “la soluzione risiede nel camminare”.
Il percorso tracciato attraverso i corridoi di cellulosa del libro In Patagonia (Adelphi, 2006) ha impresso il nome dell'eccentrico commerciante d'arte, poi giornalista e instancabile viandante, nel brulicante mappamondo della letteratura.
Nel corso del mio viaggio, In Patagonia è stata una bussola, increspata dall'umidità e ingiallita dalle macchie depositate sui tavoli delle cafeteríe su cui si posava. Guidata dall'inchiostro di Chatwin, ho ripercorso soltanto alcuni di quei luoghi che sono stati da lui registrati, con la precisione e l'amore di un naturalista, nel tentativo di raccogliere le tracce della loro bellezza e sovrapporre il mio sguardo al suo.
Il mio viaggio alla volta del ghiaccio ha avuto inizio nel torrido agosto del 2016, nell'estate precedente la mia laurea. L'irrequietezza in cui languivo si è trovata a combaciare con quella che animò Chatwin, declinata in chiave universitaria e un po' meno “selvaggia”; soffocata dal peso di un mont Everst di libri e dall'aria bollente che pervadeva la sala studio facendo concorrenza ad una vaporiera, ho deciso di volgere lo sguardo al polo Sud.
Così, riesumati i capi invernali dai meandri reconditi dell'armadio, a pochi centimetri dal confine con Narnia, ho infarcito il mio zaino da viaggio con quanto di più termico potessi reperire.
Al decollo dall'aeroporto di Milano Malpensa ho avuto l'impressione di essermi liberata dalla stretta di una rete; l'afa, le preoccupazioni continue e una subdola inquietudine soggiacente ad ogni giornata, avevano messo a dura prova le mie capacità di resistenza. Mi sentivo drenata da ogni energia, come se una banda di briganti avesse fatto razzia delle mie ampolle di resilienza e dei miei amuleti di buon auspicio.
Quando Buenos Aires mi ha salutata attraverso l'oscurità notturna, luccicando come una gioielleria a cielo aperto, ho saputo con certezza che avrei trovato nuova forza, nuovi tesori.
Forse vi chiederete, perché la Patagonia? Per rispondere con Chatwin: “scartate le isole del Pacifico, perché le isole sono trappole, scartate l'Australia e la Nuova Zelanda, come posto più sicuro della terra venne scelta la Patagonia. Immaginavo una bassa casa di legno, col tetto in asticelle, incatramata per resistere agli uragani, con dentro ciocchi fiammeggianti e, allineati sulle pareti, i migliori libri: un posto dove vivere mentre il resto del mondo saltava per aria.” (B. Chatwin, In Patagonia, Adelphi, 2006, p. 13). Ecco perché.
Dalla frenetica periferia di Buenos Aires sono salita su un minuscolo aereo, ben poco promettente, diretto alla città più a Sud del mondo: Ushuaia. Questo piccolo conglomerato urbano, eretto ai confini dell'Antartide e capoluogo della provincia della Terra del Fuoco, ripaga con scorci sublimi il coraggio di chi espone gli zigomi alle raffiche taglienti dei sui venti ghiacciati.
Ushuaia, Tierra del Fuego, Argentina.
[…] la terra e il cielo che si fondevano, mescolando e annullando i loro colori. (B. Chatwin, In Patagonia, Adelphi, p. 2)
Navigando cautamente sulle gelide correnti del canale di Beagle, al diradarsi della foschia si è aperta la visuale su scogli gremiti di cormorani, foche e leoni marini, appesi alla roccia salmastra a grappoli.
Fauna fuegina, Ushuaia, Terra del Fuoco, Argentina.
In seguito a delicate manovre la guida dell'imbarcazione su cui sono salita insieme a una manciata di impavidi turisti, un pescatore senza età dagli occhi liquorosi, ci ha condotti ai piedi di un isolotto, sorto in mezzo al nulla. Su questo si ergeva un faro solitario, battezzato “Les Eclaireurs” e spesso confuso con il “Faro della Fin del Mundo”, celebrato da Jules Verne nell'omonimo romanzo.
Les Eclaireurs, Ushuaia, Tierra del Fuego, Argentina.
“La terra del Fuoco è quindi la terra di Satana, dove le fiamme tremolano come lucciole in una notte d'estate e nei gironi sempre più stretti dell'Inferno il ghiaccio imprigiona le anime dei traditori come cannucce di paglia in un bicchiere d'acqua gelata.” (B. Chatwin, In Patagonia, Adelphi, 2006, p. 149)
Dall'aeroporto di Ushuaia sono partita alla volta della Patagonia, atterrando in un paesino dal nome “El Calefate”, mecca per gli alpinisti che desiderano sfidare le aguzze cime del celebre Fitz Roy. Da qui, l'unico modo per addentrarsi nel cuore del parco nazionale dei Ghiacciai, era per mezzo di un autobus traballante che pareva aver fatto il pieno con benzina corretta alla tequila. Masticando strade interminabili, solcate sporadicamente da lama o struzzi, dal finestrino non si scorgeva che pampa.
Pampa, Patagonia, Argentina
Sulle distese d'erba giallognola un numero indefinito di pecore brucava diligentemente, mentre qualche hacienda, tipica fattoria spagnola, sbucava all'orizzonte come a ricordarci che esistevano anche uomini, oltre ad animali selvaggi e fili d'erba. Non mi risultava difficile proiettare le leggendarie imprese di Butch Cassidy e della sua banda su questo sfondo; persino le pattuglie più audaci non potevano far altro che mangiare la polvere del bandito e dei suoi complici, in quella landa sterminata e generosa di nascondigli.
Pampa, Patagonia, Argentina
Il mio fantasticare è stato interrotto da uno degli spettacoli più mozzafiato che la terra potesse offrire: mi sono finalmente imbattuta nel ghiacciaio “Perito Moreno”, situato nel cuore del parco nazionale Los Glaciares, chiamato così in onore del suo esploratore, Francisco Moreno.
ghiacciaio Perito Moreno, Parco nazionale Los Glaciares, Patagonia, Argentina.
Questa lastra di ghiaccio lunga 5 km si riversa sul lago Argentino, dando vita a riflessi e giochi di luce che potrebbero tranquillamente competere in bellezza con smeraldi e lapislazzuli. Le sponde del lago sono accarezzate da un liquido torbido, chiamato dagli indigeni “latte glaciale”; infatti, i sali minerali incastonati come gemme nel ghiaccio, al momento del suo scioglimento si mescolano all'acqua, dando origine a un delicato acquarello.
Glaciar Milk, Perito Moreno, Parco nazionale Los Glaciares, Patagonia, Argentina.
Il ghiacciaio è noto per essere in movimento, infatti si registra un suo avanzamento giornaliero di circa due metri. Gli strati di cui si compone formano figure geometriche e simmetrie incredibilmente raffinate, il tempo ha decorato il gigante azzurro come il più dotato dei cesellatori.
Perito Moreno, Parco nazionale Los Glaciares, Patagonia, Argentina.
Ho pensato immediatamente alla poesia di Robert Frost, nella quale si interroga su come possa finire mondo, se avviluppato dalle fiamme o assiderato dal gelo. Mentre il poeta statunitense prospetta una fine tra fiamme ardenti come il desiderio, ho avuto l'impressione che l'aria siderale che spirava tra quelle fessure acuminate di ghiaccio, potesse prefigurare con gran precisione l'apice di sublimità del mondo e il suo rovesciamento.
Ho lasciato la Patagonia con il cuore pesante, le ossa ancora attraversate da brividi di freddo e un'indicibile nostalgia di quel blu etereo.
“La Patagonia!” gridò. “È un'amante difficile. Lancia il suo incantesimo. Un'ammaliatrice! Ti stringe nelle sue braccia e non ti lascia più”. (In Patagonia, B.Chatwin, Adelphi, 2006, p. 45)
Il romanzo In Patagonia, apparso nel 1977 come opera prima di Bruce Chatwin, ripercorre le tappe salienti di un viaggio che, snodandosi attraverso alla pampa argentina, da lui definita “il perfetto ricettacolo per l'allucinazione, la solitudine e l'esilio”, restituisce una galleria di esistenze che vorticano tra le pagine come figure intrappolate in un caleidoscopio.
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